Giuseppe Lippi1 , Laura Sciacovelli2 , Tommaso Trenti3 , Mario Plebani2
1Sezione di Biochimica Clinica, Università di Verona
2Dipartimento di Medicina di Laboratorio, Azienda-Ospedale, Università di Padova
3Dipartimento di Medicina di Laboratorio e Anatomia Patologica, Unità Sanitaria Locale, Modena
With the ongoing coronavirus disease 2019 (COVID-19) pandemic outbreak spreading all around the world, an extensive vaccination against severe acute respiratory syndrome coronavirus 2 (SARS-CoV-2) is now universally regarded as one of the most effective strategies for counteracting the unremittent spread of this novel coronavirus. Nonetheless, the reasonable need to identify segments of the population in which vaccination shall be prioritized for avoiding a possible shortage of vaccines seems to collide with indications provided by many national and international healthcare organizations, that endorse widespread vaccination irrespective of a positive history of prior symptomatic or asymptomatic SARS-CoV-2 infection. To this end, this document provides an ad interim guidance aimed at prioritizing SARS-CoV-2 vaccination in people who are more likely to be infected, re-infected and/or to develop more aggressive COVID-19 illness, essentially based on routine assessment and monitoring of anti-SARS-CoV-2 immune response.
A causa della attualmente inarrestabile diffusione della pandemia da malattia da coronavirus 2019 (COVID-19), e alla luce di un futuro plausibilmente caratterizzato da diffusione endemica di SARS-CoV-2 (severe acute respiratory syndrome coronavirus 2) (1), la vaccinazione contro questo nuovo coronavirus è oggi considerata la strategia più efficace per moderare le drammatiche conseguenze sanitarie, sociali ed economiche di COVID-19 (2). La recente disponibilità di vari tipi di vaccino, in particolare i due vaccini a RNA, BNT162b2 (3) e mRNA1273 (4) autorizzati dalla Food and Drug Administration (FDA) e dall’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, sta aprendo prospettive più ottimistiche nella lotta contro il COVID-19. Nonostante si ritenga necessario vaccinare almeno il 60- 70% della popolazione mondiale per ottenere un’immunità di gregge diffusa e duratura (5), la rapidità senza precedenti del successo della ricerca scientifica che ha consentito di progettare, sviluppare e rendere disponibili nuovi vaccini contro SARS-CoV-2 si scontra con alcune difficoltà oggettive. Questi problemi sono per lo più imputabili alla necessità di fornire una quantità sufficiente di dosi per vaccinare l’intera popolazione mondiale, ma soprattutto le categorie professionali a rischio più alto d’infezione da SARS-CoV-2, come gli operatori sanitari, che sono stati i più colpiti dalla prima ondata dell’epidemia in molti Paesi del mondo (6). La necessità cogente di identificare uno o più segmenti della popolazione cui dare priorità per la vaccinazione, sembra essere in conflitto con indicazioni fornite da molte organizzazioni sanitarie. I Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti (CDC), affermano ad esempio che i vaccini a mRNA sembrano mostrare un adeguato profilo di sicurezza anche in pazienti con evidenza clinica di pregressa infezione da SARS-CoV-2, concludendo così che la vaccinazione possa essere praticata diffusamente, indipendentemente dalla storia clinica positiva per una precedente infezione sintomatica o asintomatica da SARS-CoV-2 (7). Il CDC afferma inoltre che non è necessario eseguire prima della vaccinazione test molecolari volti a diagnosticare un’infezione acuta da SARS-CoV-2, nè tantomeno esami sierologici per caratterizzare l’eventuale sieropositività al virus. Questa generica indicazione è stata avallata da molti governi e autorità sanitarie in tutto il mondo, sicché le campagne di vaccinazione sono oggi svolte nella massima parte dei casi senza verificare la possibile presenza (e l’eventuale titolo) di anticorpi anti-SARS-CoV-2. Questo assunto si basa sulle premesse che l’immunità naturale contro il virus potrebbe non essere durevole e protettiva, e che questo tipo di vaccinazione non dovrebbe associarsi a rischi per pazienti con positività per anticorpi anti-SARSCoV-2 (8). Quest’ultima affermazione è particolarmente discutibile, poiché i pazienti con precedente infezione da COVID-19 sono stati esclusi dagli studi di fase III sui vaccini ad RNA, e quindi il rischio di sviluppare effetti avversi in questa popolazione di pazienti non può essere inequivocabilmente escluso. Malgrado i dubbi relativi a durata e protezione dell’immunità umorale contro SARS-CoV-2 rimangano per lo più irrisolti (9), stanno emergendo evidenze biologiche e cliniche che mettono in dubbio l’efficacia e l’efficienza di strategie vaccinali diffuse che si rivolgano quindi anche a pazienti recentemente “guariti” da un’infezione da SARS-CoV-2 completamente asintomatica, lievemente sintomatica o anche gravemente sintomatica. Un recente articolo, pubblicato da Dan et al. sulla prestigiosa rivista Science (10), ha dimostrato come la memoria immunitaria circolante contro SARS-CoV-2 possa durare fino a 6 mesi in pazienti con pregressa infezione da SARS-CoV-2. In particolare, il titolo delle immunoglobuline (Ig) G dirette contro la proteina spike di SARS-CoV-2 è apparso relativamente stabile nel tempo [emivita di 140 giorni; intervallo di confidenza al 95% (95% CI), 20-240 giorni], mentre i linfociti B con memoria specifica per la proteina spike di SARS-CoV-2 sembrano persistere a distanza di 6 mesi dopo un’infezione da SARS-CoV-2 in quantità addirittura più abbondante rispetto al periodo precedente. E’ altresì interessante l’osservazione di come il 90% dei pazienti mantenga sieropositività per IgG contro la proteina spike di SARS-CoV-2 a 6-8 mesi dopo l’infezione. La determinazione delle IgA contro la proteina spike di SARS-CoV-2, una classe di anticorpi espressi alla superficie delle mucose e quindi almeno teoricamente in grado di conferire una protezione efficace contro la reinfezione (11), ha rivelato un’emivita ancora più lunga rispetto alle IgG (210 giorni; 95% CI 126-703 giorni). Complessivamente, questi dati sono in linea con i risultati pubblicati in precedenza, che suggeriscono come l’immunità umorale contro SARS-CoV-2 (12), così come quella dei linfociti B di memoria (13), durerebbe non meno di 4-6 mesi dopo un’infezione acuta, soprattutto in pazienti che abbiano sviluppato una forma particolarmente aggressiva della malattia. Per quanto invece concerne la questione se questa immunità sia protettiva contro la reinfezione o la trasmissione del virus, i risultati di uno studio recente condotto da Kim et al. hanno generato importanti elementi degni di attenzione (14). Gli autori hanno studiato una coorte di furetti, inizialmente infettati con SARS-CoV-2 per potenziare la produzione di anticorpi neutralizzanti. In un secondo momento, gli animali sono stati suddivisi in cinque gruppi sulla base del titolo di anticorpi neutralizzanti, e sono stati sottoposti ad una seconda infezione con un ceppo eterologo di SARS-CoV-2. È importante sottolineare come i furetti con titolo anticorpale compreso tra moderato ed elevato (da 1:20 a 1:160) non solo erano protetti dalla reinfezione, ma si sono anche rivelati incapaci di trasmettere il virus ad altri animali non infetti. Questi risultati supportano i risultati emersi dagli studi sui vaccini BNT162b2 (3) e mRNA1273 (4), secondo cui lo sviluppo di un’immunità antiSARS-CoV-2 ridurrebbe di quasi il 95% il rischio di ammalarsi di COVID-19, assieme ad un’altrettanto efficiente protezione contro il rischio di infezione da SARS-CoV-2. Risultati molto simili sono anche emersi in uno studio di siero-prevalenza che ha coinvolto oltre 12 500 operatori sanitari (15), e che ha potuto dimostrare come una precedente infezione da SARS-CoV-2 possa generare una risposta immunitaria umorale tale da ridurre di quasi 10 volte il rischio di risultati positivi ad un secondo test molecolare per SARS-CoV-2 (tasso di incidenza aggiustato, 0,11; 95% CI 0,03-0,44). E’ ormai acclarato come produzione, diffusione e somministrazione di vaccini contro SARS-CoV-2 rappresentino sfide epocali, e tali rimarranno per molto tempo ancora (2). Tali problematiche si teme possano ritardare l’auspicata generazione di una solida e duratura immunità di gregge, efficace per contrastare sia la circolazione del virus che l’infezione di soggetti più fragili che presentano un maggior rischio di sviluppare forme gravi, anche letali, della malattia. Inoltre, sebbene il costo dei vaccini diminuirà gradualmente nel tempo in parallelo a sviluppo, approvazione e commercializzazione di nuove formulazioni, la spesa prevista per vaccinare miliardi di persone in tutto il mondo è colossale. In questo enigmatico scenario, è nostra convinzione che la vaccinazione contro SARS-CoV-2 debba seguire delle priorità tali per cui i soggetti che hanno meno probabilità di essere infettati, reinfettati e/o di sviluppare una forma più aggressiva di COVID-19 debbano essere vaccinati solo dopo che i segmenti più fragili e vulnerabili della popolazione abbiano acquisito un grado sufficiente di immunità protettiva. Questa considerazione pone le premesse per alcune opzioni (non mutuamente esclusive), che ci portano a formulare alcune raccomandazioni ad interim:
- il titolo degli anticorpi anti-SARS-CoV-2 [anti-spike, preferibilmente contro il receptor binding domain (RBD) ed eventualmente anche le IgA] dovrebbe essere determinato prima della vaccinazione, cosicché possa essere data priorità per la somministrazione del vaccino ai soggetti sieronegativi. A questo proposito si suggerisce l’utilizzo di saggi immunometrici che abbiano una ben dimostrata correlazione con gli anticorpi neutralizzanti anti-SARS-CoV-2 (16);
- qualora la titolazione degli anticorpi anti-SARS-CoV2 sia impossibile o non fattibile, la vaccinazione contro SARS-CoV-2 di pazienti con diagnosi molecolare di infezione recente (<3 mesi) dovrebbe essere posticipata, almeno fino a quando categorie a rischio più elevato di soggetti sieronegativi abbiano completato il ciclo vaccinale o il virus abbia accumulato mutazioni tali da far supporre che la protezione naturale acquisita possa essere inefficace;><3 mesi) dovrebbe essere posticipata, almeno fino a quando categorie a rischio più elevato di soggetti sieronegativi abbiano completato il ciclo vaccinale o il virus abbia accumulato mutazioni tali da far supporre che la protezione naturale acquisita possa essere inefficace;
- gli immunodosaggi quantitativi sono preferibili a quelli che generano solo risultati semiquantitativi o qualitativi (17), così come le tecniche completamente automatizzate sono consigliabili per supportare grandi volumi di esami;
- il titolo degli anticorpi anti-SARS-CoV-2 (anti-spike, preferibilmente contro il RBD ed eventualmente anche le IgA) dovrebbe essere monitorato per almeno 6-8 mesi, preferibilmente a partire da 1 a 2 settimane dopo la somministrazione dell’ultima dose di vaccino (quando sia prevista più di una dose) utilizzando sempre lo stesso metodo. Ciò consentirebbe di identificare tempestivamente l‘assenza di sieropositività o la sieronegativizzazione, consentendo così di guidare il processo decisionale clinico verso una possibile rivaccinazione contro SARS-CoV-2 o somministrazione di nuovi agenti terapeutici, come gli anticorpi monoclonali anti-SARS-CoV-2;
- la determinazione degli anticorpi prima della somministrazione del vaccino ed il monitoraggio a tempi successivi sono assolutamente necessari per categorie di pazienti immunodepressi, in trattamento farmacologico con farmaci immunosoppressori ed immunoregolatori e nei pazienti con patologie di carattere oncologico.
Si ritiene infine che sia necessario chiarire altri aspetti, alla luce del disorientamento emerso, in merito a competenza e responsabilità per:
- l’identificazione del tipo di esame più appropriato da utilizzare sulla base della prevalenza della malattia, delle caratteristiche della popolazione e degli algoritmi diagnostici;
- la valutazione/validazione degli esami molecolari, antigenici e/o sierologici;
- la tracciabilità ed il rilascio dei risultati.
Le prestazionali (analitiche e diagnostiche) di ogni specifico esame di laboratorio dovrebbero sempre essere validate e/o verificate da professionisti di Medicina di Laboratorio in collaborazione con le istituzioni sanitarie e le aziende del diagnostico, poiché solo gli esperti di Medicina di Laboratorio possiedono capacità e competenze idonee per l’utilizzo degli esami conforme alle loro prestazionali. Questi aspetti appaiono ancor più rilevanti nel corso della pandemia, alla luce del fatto che organismi di regolamentazione quali FDA hanno rilasciato una “Emergency Use Authorization” per vari sistemi diagnostici e reagenti da utilizzare nel contesto del COVID-19. I professionisti di Medicina di Laboratorio dovrebbero inoltre essere coinvolti nella selezione degli esami più idonei secondo i criteri sopra descritti, nonché nell’identificazione di algoritmi per la diagnostica SARS-CoV-2 (ad esempio, per la ripetizione dell’esame o per protocolli di analisi ortogonale, con test “a cascata”). Si ravvisa infine l’opportunità di un monitoraggio della risposta cellulare al vaccino, ove essa sia indicata e fattibile.
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